giovedì 1 maggio 2014

MARIO FORTUNATO: persino organizzazioni come l’arcigay e circolo mario mieli hanno iniziato ad aprire locali dotati di back room, dove non si pratica sesso sicuro”



Dopo Massimo Consoli e Dario Bellezza,  anche Mario Fortunato, con questo articolo apparso sul mensile Liberal nel 1995,  scese in campo contro le dark room gestite  anche dall'Arcigay e dal Mario Mieli. Un articolo rimasto pressoché sconosciuto alla maggioranza dei membri della comunità glbt del nostro Paese.





      UN ATTO DI ACCUSA ALLA COMUNITA’ GAY
 
CHIUDETE QUEI LOCALI  di amore e morte
 
   di MARIO FORTUNATO

 

MARIO FORTUNATO
 
Una premessa. Vorrei che questo articolo fosse letto come un preciso atto di accusa contro i media e in subordine contro il movimento gay di casa nostra. Il motivo è che in Italia, nel momento in cui la diffusione dell’Aids comincia ad assumere proporzioni terrificanti, i giornali e le televisioni hanno dimenticato il problema, mentre la comunità gay non appare più in grado di mobilitarsi efficacemente sul tema.

Succede un fatto strano. Anni addietro, più o meno sul finire dello scorso decennio, i media nazionali scoprirono l’Aids. La sindrome da immunodeficienza acquisita, che dilagava in maniera impressionante nel mondo occidentale e soprattutto negli Stati Uniti, era divenuta la regina delle notizie. Non passava un giorno senza che giornali e televisioni nazionali non riferissero un nuovo dato, senza che inchieste e servizi e testimonianze in proposito non fossero proposti all’attenzione e alla sensibilità dei lettori.

Ricordo in particolare un agosto di qualche anno fa. Forse perché nulla di significativo accadeva in politica, forse perché nessuna guerra in quel momento infiammava il pianeta, la campagna sull’Aids aveva militarmente occupato prime pagine e copertine. Si parlava, molti lo ricorderanno, di “nuova peste”, “la peste del secolo”, “la peste del duemila”, anche più spericolatamente “la peste degli omosessuali”…Si raccontavano episodi feroci, di ferocia e discriminazione, accaduti per lo più, oltre oceano. Ci fu perfino un giornalista di un settimanale, L’Europeo, che fingendosi sieropositivo se ne era andato per qualche giorno in giro a Roma e a Milano a verificare sulla propria pelle quali erano le reazioni più diffuse e comuni delle persone di fronte a un individuo colpito dal virus dell’Hiv. Stampa e televisioni a parte, anche le scuole sembravano giustamente sensibilizzate sul tema. Mentre perfino un ministro della Sanità come De Lorenzo sentiva il dovere di promuovere una campagna nazionale di informazione (dovere non disgiunto dal senso di opportunità, se è vero che su quella campagna lucrarono in molti).

Pure, in tanta mobilitazione, invocata e il più delle volte sostenuta dal movimento omosessuale italiano, colpivano i dati di diffusione della malattia. Che erano dati per fortuna modesti, in Italia. Così che, mentre negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, in Inghilterra, la malattia mieteva vittime a un ritmo spaventoso (per qualche tempo, le telefonate e le lettere agli amici stranieri del sottoscritto sono arrivate a ridursi dei due terzi), in Italia per fortuna le cose andavano diversamente.

I più colpiti erano i tossicodipendenti. Seguivano gli omosessuali, gli eterosessuali, gli emofiliaci e via di seguito. I dati comunque, confrontati con quelli degli altri Paesi occidentali, erano tutto sommato confortanti. Del resto, riflettendoci adesso, anche i nostri pochi personaggi pubblici colpiti dal male (gli amici Pier Vittorio Tondelli e Giovanni Forti, altri i cui parenti preferiscono si taccia in proposito) erano in realtà persone con una spiccata esperienza di vita o professionale fuori dei confini nazionali. Il che lascia ragionevolmente pensare che il contagio sia avvenuto altrove.

 

Tutto bene, allora, sul fronte dell’Aids? Siamo rimasti un ‘isola compatibilmente felice? Neanche per idea. Lo dicevo prima: a distanza di una decina d’anni dal primo allarme, in Italia succede un fatto strano. Si tratta di un vero e proprio paradosso. Del rischio  Aids si parla ormai pochissimo. Certo, si dà notizia se qualche celebrità straniera annuncia al mondo la propria condizione. Si recensiscono con puntualità i libri o il film che raccontano la malattia (detto fra parentesi: nessun libro italiano, nessun film italiano). Si riferiscono i dati sulla diffusione della malattia, che l’Istituto superiore della  sanità elabora regolarmente. Ma, una volta lavata la coscienza, giornali e televisioni tacciono.

Così nessuno si è accorto che secondo gli ultimi dati sulla diffusione del male in Italia i casi di Aids sono cresciuti nell’ultimo anno in maniera esponenziale. Non basta. I dati dicono che la malattia si va diffondendo soprattutto fra le persone al di sotto dei venticinque anni e con nessuna esperienza di droga pesante. E che è per lo più nelle grandi aree urbane che il fenomeno trova la sua massima diffusione.

Eccoci dunque al paradosso. Fino a che il fenomeno Aids investiva gli altri Paesi occidentali, i media italiani, come sempre subalterni e provinciali, imitando i loro omologhi stranieri, sfornavano a ogni pie’ sospinto inchieste, reportage, informazioni sul tema. Ora che l’Italia sta conoscendo la tragica diffusione del male, che toccò anni fa a Stati Uniti, Germania e Francia, il silenzio in proposito è quasi totale. Dove sono le copertine tambureggianti? Dove le prime pagine? Dove i servizi e le inchieste televisive? I media nazionali tacciono. Colpevolmente, disgraziatamente, tacciono.

Silence=death, silenzio uguale morte, era lo slogan dei gruppi gay americani. Su quello slogan, e poi sul lavoro di artisti come Keith Haring e Jean Michel Basquiat, di scrittori come Edmund White, Hervé Guibert e Christophe Bourdin, di cineasti come Cyril Collard e Jonathan Demme, i movimenti omosessuali di mezzo mondo sono cresciuti e hanno rappresentato un po’ dovunque la punta più avanzata di ricerca, di informazione, di lotta contro l’Aids. Non lo stesso in Italia. La comunità omosessuale nazionale è infatti da questo punto di vista criminalmente arretrata incapace di riflettere e soprattutto di reagire al problema.

Tempo addietro, in città come New York, San Francisco, Berlino, Amsterdam e Parigi, un grande dibattito ha investito il mondo e la cultura gay. Era un dibattito che rimetteva in discussione alcune forme tipiche dell’esperienza omosessuale come il rifiuto della monogamia in favore della promiscuità. Il risultato di quel dibattito è stato assai semplice, concreto; a Parigi come a New York e a San Francisco, le abitudini di vita dei gay sono cambiate. Gran parte dei bar e dei locali che offrivano agli avventori una back room (una stanza buia, cioè, dove consumare subito e magari in gruppo un incontro sessuale) è stata chiusa. Dappertutto, comunque, distributori di condom e inviti manifesti al safe sex, al sesso sicuro. Sono letteralmente spariti dalla faccia della terra i cosiddetti bagni americani (cabine per la toilette sulle cui pareti era praticato un buco dentro cui far passare il pene). In generale, c’è stata una significativa scoperta della relazione stabile e della sfera sentimentale. E tutto ciò mentre le associazioni di sostegno medico e psicologico ai sieropositivi e agli ammalati si moltiplicavano, come si moltiplicavano le prese di coscienza sul tema delle unioni civili e dei diritti che ne conseguono.

In Italia, invece, niente di niente. Confidando nei numeri che , come dicevo, erano modesti fino a pochi anni fa, la comunità gay ha a poco a poco abbandonato il campo dell’impegno anti Aids. Preoccupati soltanto di non essere automaticamente associati alla malattia, gli omosessuali italiani hanno lasciato ai soli gruppi cattolici di base il terreno della solidarietà concreta. Inoltre nei bar e nelle discoteche omosessuali, perfino in quelle direttamente gestiti da organizzazioni culturali e politiche come l’Arcigay e il circolo Mario Mieli, hanno cominciato a comparire e ora abbondano back room e bagni americani, di modo che la promiscuità sessuale è de facto ancora un valore. Per il resto di condom si parla assai poco e, quanto al sostegno medico e psicologico degli ammalati, è stato da ultimo sostituito con sfilate di moda, esibizioni di soubrette e concorsi di bellezza. Naturale che, anche in ragione di tanta dissennatezza e di una così radicale mancanza d’informazione, la comunità gay italiana sia oggi  investita da un incremento di casi di sieropositività fino a ieri impensabile (è accaduto a chi scrive, tanto per fare un esempio, di contare una decina di casi certi, tutte persone sotto i ventotto anni, nel corso di un party romano con non più di quaranta ospiti).

Questa la situazione. Una stampa e un sistema di media così distante dalla realtà da essere ormai incapace di raccontare le cose se non per imitazione di quanto fanno giornali e televisioni stranieri. Una comunità omosessuale incosciente e priva di una cultura propria. Se a questi due elementi già gravissimi si aggiungono lo sfascio non nuovo della scuola, la situazione drammatica di gran parte delle strutture ospedaliere pubbliche e infine il blocco per motivi burocratici assurdi della nuova campagna anti Aids promossa dall’attuale ministro della Sanità, si capisce come il problema sia destinato ad assumere forme e proporzioni incalcolabili. Altro che “peste degli omosessuali e dei tossicodipendenti”. Il problema riguarderà sempre più i ragazzi italiani, etero e omosessuali che siano, abbandonati al loro destino da un sistema informativo e di prevenzione a dir poco scellerato. Un sistema in cui tutti, Stato e alte gerarchie vaticane, media e organizzazioni gay, hanno fin qui tenuto un comportamento che non esiterei a definire, nero su bianco, criminale.

Ho detto in principio che questo articolo domandava di essere letto come un atto di accusa soprattutto contro il silenzio dei media e in subordine contro la caduta di tensione del movimento gay. Un atto di accusa per solito nasce da un sentimento di indignazione intellettuale, o da una rivolta morale. Nel caso di chi scrive, anche se potrà sembrare inelegante dirlo apertamente, è nato da un altro sentimento: il dolore personale, insopportabile, per la scomparsa o per la malattia di tanti, giovani amici stritolati dall’ignoranza e dalla disinformazione. L’idea forse era ingenua: custodiva però la speranza che all’accusa non dovesse seguire altro dolore.

 

 

 

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