martedì 12 aprile 2016


da Venerdì di Repubblica del 15 maggio 2009
di Paolo Hutter
 
 
Il 27 giugno 1992, in piazza della Scala a Milano, furono celebrati simbolicamente le prime unioni civili di coppie dello stesso sesso. L'officiante era Paolo Hutter, allora consigliere comunale del Pds.
 

              Diciassette anni fa, uscivo la sera dagli uffici del consiglio comunale di Milano, in via Marino, mettevo tra parentesi i brividi dei primi lampi di Tangentopoli e andavo a casa di Gianni Delle Foglie e Ivan Dragoni, vicino a Porta Genova, dove tenevamo meravigliose riunioni progettando il nostro colpo di scena. L’idea era nata da Gianni, che gestiva la libreria Babele ed era un animatore dell’ancora piccolo ambiente gay. Voleva che facessimo qualcosa di nuovo per l’annuale Pride, e ancora non eravamo in grado di avere migliaia di persone in piazza. Mi avevano proposto di fare, in qualità di consigliere comunale, la parte dell’officiante del matrimonio tra lui e Ivan. Lo divertiva l’idea di vestirsi da sposa.

Discutendo, avevamo aggiustato il tiro del progetto, lasciato perdere i travestimenti da donna, avevamo coinvolto altre coppie e deciso di ispirarci al progetto di legge che in Francia allora andava sotto il nome di union civile (e che sarebbe stato approvato, come Pacs, Pacte civil de solidarité, dopo qualche anno). Le riunioni erano belle perché ci facevamo il progetto di legge su misura, chiedendoci di cosa avessimo bisogno e come comunicarlo più efficacemente e immaginando la cerimonia come lancio. Doveva esserci o no la convivenza come requisito necessario dell’unione civile? (No). Doveva essere una legge per tutti o solo per le coppie dello stesso sesso? (Solo dello stesso sesso). Come doveva essere regolata la separazione? (Lasciando per un certo periodo i doveri di assistenza al partner povero). Volevamo poter adottare figli? (Almeno per il momento, no).

 

           Ripensandoci oggi, non so come facessimo senza internet, ma avevamo informazioni internazionali abbastanza dettagliate, che ci consentivano di essere in sintonia con le riforme che si stavano attuando. In Danimarca, dal 1986 era in vigore l’Unione Registrata, una legge che mi sembrava molto buona. Dovevamo però essere sintetici e concentrarci su pochi articoli, come ha il codice civile sul matrimonio, quegli articoli che il celebrante leggi agli emozionati fidanzati nel matrimonio civile, prima di chiedere il “si” e di dichiarare che i signori x e y qui presenti sono uniti in matrimonio.

L’idea che aveva convinto tutti nelle riunioni era quella di rappresentare la cosa come avrebbe dovuto e potuto essere davvero, senza esagerazioni né ironici travestimenti. Alla fine, spargendo la voce e accettando anche un paio di coppiette fresche, non ancora consolidate, avevamo raccolto otto coppie maschili e una femminile, e fatto un po’ di prove.


il matrimonio finto,
 "officiato"però dal consigliere vero
Paolo Hutter nel 1992 a piazza della scala a Milano
 

           Qualcuno aveva invitato i familiari e preparato il bouquet. Con i collaboratori del gruppo Pds del Comune di Milano avevamo valutato che era impossibile per me indossare per l’occasione una fascia tricolore ufficiale e ne avevamo chiesta in prestito una identica a un laboratorio teatrale. L’Italia del ’92 era meno preparata di oggi alle manifestazioni gay, ma non era più omofobica, anzi: forse i colpi che Tangentopoli stava assestando al sistema politico rivelavano anche desideri e spinte  di novità legate al meglio dell’Europa. L’annuncio del nostro simbolico matrimonio collettivo suscitò più curiosità che indignazione. Piazza Scala si era riempita di curiosi, oltre che di giornalisti, teleoperatori e simpatizzanti. All’inizio sentivo dalla folla dei risolini, come se stesse per cominciare un circo. Ma abbastanza rapidamente il “bacio bacio” gridato alle coppie, man mano che dichiaravo al microfono che i “signori Giuseppe e Antonio qui presenti sono uniti civilmente”, perdeva il carattere di sfottò per diventare la divertita commozione con la quale si assiste a un matrimonio vero. Proprio a Gianni Delle Foglie e Ivan Dragoni, la coppia capostipite, capitò l’episodio rivelatore del successo umano dell’inziativa:andarono via con un taxi, e il taxista volle offrire la corsa.

La sera, tutti i telegiornali mandarono in onda il servizio, senza nessun Casini, Giovannardi o Calderoli a protestare, registrando solo la “perplessità” di Curia e Prefettura.

              Il Prefetto non aveva capito bene la storia della mia fascia tricolore e aveva protestato con il sindaco temendo che fosse stato trascritto dagli uffici di stato civile del Comune un matrimonio “sperimentale”.

Giampiero Borghini – sindaco travicello durante Tangentopoli per un annetto, prima di arrendersi alle elezioni anticipate – mi convocò per chiarimenti minacciando di togliermi la delega per celebrare i matrimoni, quelli veri. Lo pregai di non farlo. Celebrare  matrimoni mi piaceva moltissimo, ma questa rappresentazione che avevamo fatto non c’entrava nulla con la delega. Oltretutto non l’avremmo ripetuta negli stessi termini, anche se avevo ricevuto da alcune coppie in giro per l’Italia la richiesta di fare da celebrante, come se fossi un santo che fa i miracoli.

 


                Allora, nel ’92, il movimento che in quel modo nasceva in Italia per le unioni civili non era molto indietro rispetto agli altri Paesi e ci sentivamo ancora parte del mondo avanzato. Oggi non so se ridere o sconfortarmi nel registrare che la questione è persino fuori dalla agenda politica, salvo che non la riportino in auge i ricorsi che alcune coppie stanno facendo alla magistratura. Ormai ci sono leggi per il matrimonio o per le unioni civili in mezzo mondo, anche in America Latina. Un tragico destino ha fatto sperimentare, dalla teoria alla pratica, la durezza della questione proprio a a Gianni Delle Foglie e a Ivan Dragoni, la coppia trainante del gruppo del ’92. Quando, l’anno scorso, per un improvviso malore, rivelatosi poi gravissimo. Gianni è stato ricoverato, Ivan ha dovuto continuamente negoziare e rivendicare il suo diritto di stargli vicino, a essere informato, a decidere. “Ho detto che ero il convivente. E ho avvertito l’imbarazzo dei lettighieri.

 

              Comunque sono stati gentili. Mi hanno fatto salire e siamo arrivati all’ospedale. Da quel momento in poi. Ho capito che io per loro ero meno di un passante. Cercavano i parenti, quelli “veri”. Sono stati loro a dire ai medici che era importante che anche io stessi al capezzale del paziente. Subito dopo l’angioplastica che gli è stata praticata d’urgenza ho capito che le cose andavano male. Ma non me l’hanno comunicato loro. Lo dicevano ai fratelli, i quali lo spiegavano a me.

“Quando Gianni è spirato, era come se fossi diventato invisibile. Per tutte le decisioni importanti successive alla morte servono  le firme di quelli che per la legge sono i familiari. Quindi i fratelli e le sorelle. Non io.Questo per il prelievo degli organi, per la scelta della cremazione, per la richiesta di conservare le ceneri. Bastava che un solo fratello si opponesse a una di queste cose, che io e Gianni avevamo deciso e sapevamo l’uno dell’altro, e si sarebbe fatto in modo diverso”.

               Dopo 26 anni di vita di coppia, dopo essere andati in tv  come prima coppia dello stesso sesso che, in quanto tale, rivendica diritti, nell’Italia di Berlusconi e Ratzinger capita anche questo: che una persona colta e avvertita perda il proprio compagno e trovi ancora davanti a sé ostacoli di questo genere.

 
         https://malesoulmakeup.wordpress.com/2012/06/27/lgbtqi/

 

 

 

 

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