domenica 4 dicembre 2016


 

 
Un altro articolo del 1996 in cui Massimo Consoli si definisce FONDATORE DEL MOVIMENTO GAY . Oggi però non è più tale. Da più parti si legge, infatti,  che è definito come uno dei padri fondatori, pioniere etc.  Ma quale sarà la verità?


ROME GAY NEWS

ANNO VIII – N.112 – 6 NOVEMBRE 1996 

 

SODDISFAZIONE DEI GAY PER LA SALUTE DI ELTSIN

E LA RIELEZIONE DI CLINTON

 

In merito ai più recenti fatti di cronaca internazionale, lo scrittore Massimo Consoli, fondatore del movimento gay italiano e direttore dell’agenzia Rome Gay News, ha dichiarato quanto segue:

                                                                                                        

“Questo è un giorno di gran letizia per i gay di tutto il mondo. Due tra gli amici più necessari alla nostra comunità continuano ad occupare le posizioni più influenti: Bill Clinton è stato rieletto alla presidenza degli Stati Uniti e Boris Eltsin ha superato brillantemente la grave operazione di by-pass coronarico alla quale è stato sottoposto.

Ma quale può essere il motivo di tanta soddisfazione?

La prima volta, nel 1992, Clinton raggiunse la Casa Bianca con il voto decisivo dei gay americani, che per lui raccolsero fondi e si mobilitarono come mai prima. Clinton si era impegnato ad eliminare le cause della discriminazione e del disagio  che a tutt’oggi ancora colpiscono la comunità americana, ma una forte opposizione interna glielo ha impedito. Questa opposizione è stata guidata dal generale Colin Powell, uno zio Tom che ha dimenticato

a) quanto i suoi antenati schiavi abbiano sofferto per colpa della medesima malvagità d’animo e stortura morale della quale lui oggi si fa portavoce, e

b) quanto i gay d’America abbiano contribuito con le loro lotte ed i loro sacrifici a far considerare i neri come persone normali.

Ma anche se Clinton, non ha mantenuto tutte le sue promesse, si è nondimeno mosso in quella direzione. La mancata approvazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso non viene considerato un tradimento visto che, anche all’interno della comunità, l’opinione prevalente sembra essere che è meglio lottare per eliminare il matrimonio tra persone di sesso diverso piuttosto che scimmiottarle in un tipo di relazione che è innaturale e fonte di molti tra i guai che affliggono l’umanità.

 

Per quel che riguarda Eltsin, non possiamo dimenticare che il premier della Russia è stato addirittura ben più concreto di Clinton, come abbiamo avuto occasione di documentare  (unici in Italia), fin dal 1992, scrivendo che:

“I gay russi sono stati indispensabili a Boris Eltsin nel poter trasmettere le sue dichiarazioni, d’attacco contro il tentato putsch dei generali dello scorso agosto (1991, ndr) prestandogli il computer e la stampante del giornale gay TEMA, la sola organizzazione che ancora possedeva uno strumento di comunicazione funzionante al momento del colpo di Stato. Il computer era stato ricevuto due settimane prima come dono dell’International Gay and Lesbian Human Rights Commission, di San Francisco. Tale atto di eroismo degli editori di TEMA precedeva la grande protesta dei gay sovietici nello scorso settembre (1991, ndr), che rivendicava i propri diritti chiedendo l’abolizione dell’articolo 121 del Codice Penale Sovietico…La  mutata atmosfera politica apre le porte al riconoscimento dei diritti dei gay sovietici che possono ben dire di aver partecipato in diretta alla creazione democratica del Paese.”



Questa previsione si è poi dimostrata esatta e Eltsin, al contrario del can can che ha accompagnato ogni dichiarazione di Clinton sull’omosessualità, per pagare il suo debito nei confronti della comunità gay (ormai russa e non più sovietica) senza creare problemi e senza che si potesse costituire un’opposizione, decise di agire in segreto. Così, nel maggio del 1993, il mondo apprese che una precedente deliberazione (di parecchi mesi prima!), il governo russo aveva abrogato l’art. 121.

In questo modo Eltsin è riuscito senza tanti problemi e senza sollevare troppa polvere, laddove Clinton ha incontrato difficoltà fino ad oggi insormontabili.

Ad ambedue, in ogni caso, vanno i nostri migliori auguri di buon lavoro e, ovviamente, di buona salute".

 

sabato 3 dicembre 2016

Intervento di Dario Bellezza il 2 dicembre 1976 CONTROPROCESSO ALL'ASSASSINIO DI PASOLINI TENUTOSI PRESSO L'OMPO'S


 


               Io vorrei dire una cosa su questo convegno, su questo nostro contro processo. Scusate. I media hanno pubblicizzato la cosa mettendola sotto il segno del Fuori. C’è stato un equivoco. Non so la colpa di chi è, se dei giornali, degli organizzatori o di noi stessi che spesso veniamo confusi con altri gruppi, ma con il Fuori noi non c’entriamo niente. Io non ne faccio parte…

              La mia polemica con i compagni del Fuori è soprattutto questa: per quella totalità che Pasolini voleva abbracciare, che era stata il punto di partenza e di arrivo della sua attività creativa, di rifiutare il ghetto e tutte le strumentalizzazioni di tipo politico, anche di una parte politica minoritaria e che lotta per l’emancipazione degli omosessuali.

              Per cui questo nostro processo a Pelosi è un processo simbolico che non vuole nessuna condanna e nessuna assoluzione, ma si ripromette di ricordare, e non solo retoricamente, la perdita di Pasolini. Soprattutto, intendiamo ricordare che niente di concreto, di reale,  è stato fatto dai magistrati che si occupano del caso, perché secondo quella che è stata la sentenza di primo grado, niente è stato fatto per ritrovare, per rintracciare i complici di Pino Pelosi, o in ogni caso, per far sì che le indagini fossero continuate.

             Voglio dire che non vorremmo che questo processo facesse marcia indietro e quella piccola conquista di verità, che era stata la sentenza di primo grado, fosse annullata, considerati anche gli errori compiuti da quella che si chiama parte civile. Proprio quella parte civile che non si è presentata al processo di appello è iniziato oggi, ed io non so se per una forma di protesta o di presunzione, adducendo delle motivazioni, secondo me, sofistiche. Dicono, in poche parole, i familiari di Pier Paolo: “Noi abbiamo dimostrato che quella sera Pasolini non era solo con Pelosi e tanto ci basta. Tutto quello che succederà in seguito, non riguarda più Pasolini”.

                Io non sono mai molto lucido quando parlo di Pasolini. I rapporti che ho avuto in vita con lui, mi proibiscono di parlarne in maniera oggettiva. Confesso, dunque  che mi metto sempre dentro il margine della visceralità e della soggettività. D’altronde, c’è un altro meccanismo che mi scatta dentro, dato che è chiaro che proiettavo, identificavo su Pasolini una figura grosso modo paterna e anche materna.

                  Il padre, diciamo così, era l’ideologia, era l’intelligenza, era la sapienza. La madre, invece, era la poesia. Mi sento scrutato, giudicato da Pasolini, continuamente. E’come se fosse stato un grande Dio che, purtroppo, ha dimostrato il suo difetto, la sua mortalità. Morendo Pasolini ha compiuto su di me una specie di esorcismo e mi ha lasciato libero di continuare per la mia strada.

                   Io non so qual è la mia strada. E’ la strada di un emarginato, di uno zingaro, di uno che ha scelto di non compromettersi se non in una compromissione feroce, forse anche in questo Pasoliniana, nei confronti della società italiana.

                   Pasolini diceva “Voglio lasciare l’Italia”. Era uno dei suoi leit motiv degli ultimi tempi. Nel dirlo c’era l’ironia di chi sa che, in realtà, non può farlo e, forse anche la prefigurazione della sua morte. Io credo che tutti noi lo sappiamo e un poeta poi lo sa, forse, non perché ha dei poteri mediatici o telepatici o di intuizione superiore a quella degli altri, ma lo sa per una specie di magico rapporto che ha con la realtà.

                   Pasolini sapeva da premonizioni, da sogni, dall’inconscio che si svelava attraverso i sogni, che la morte lo doveva colpire. Non gli piaceva la vita. Non gli piaceva più la realtà, diciamo la verità.

La verità è quella che Pasolini ha firmato, concludendo la sua vita terrena.

                  Lasciamo stare il fatto oggettivo, politico, della sua morte per mano dei fascisti, come io sono convinto che sia.  E proprio per ragioni di poesia. Ci arrivo attraverso la poesia, non attraverso la politica, l’ideologia, a spiegarmi quella morte lì, perché solo chi è impoetico totalmente, chi è barbaro, chi è nero, può pensare di uccidere un poeta come Pasolini.

 

                    Pasolini mi ha lasciato libero e io, di questa libertà, non so che farmene.

 

                     Non so che farmene, soprattutto perché mi sembra una condanna superiore a qualsiasi prigionia  a cui lui mi costringeva. Questo è l’amore che io ho per Pasolini. Parlarne per me, adesso, non è più neppure uno strazio, è una specie di confessione di fronte a questo Dio che mi ha tradito.

                     Bisogna liberarsi dei padri, bisogna ucciderli, ma Pasolini era un padre di tipo particolare, devo dire, uno che nella sua ferocia voleva vendetta. Pasolini, da me, vuole vendetta. Perché era molto feroce nella sua vendetta totale verso chi lo aveva cacciato dal mondo e dalla società italiana, già nel 1949, e anche prima, uccidendo il fratello, ammazzato, e non per motivi simbolici, dai comunisti. Eppure lui si era fatto comunista, per mettersi al di dentro di quello che era stato il carnefice del fratello.

                    Io rinnego il mondo sottoproletario e anche Pier Paolo lo rinnegherebbe, ma non perché ha prodotto Pino Pelosi, bensì perché ha prodotto quelle persone che, nel loro codice, hanno come primo barbarico moto del cuore, la vendetta. E i vari Sergio Citti, Ninetto Davoli e tutti quelli che si erano affratellati in un finto amore, in un inautentico amore per colui che poi non potevano amare, lo hanno ucciso un’altra volta, non vendicandolo.

                     Non lo potevano amare perché appartenevano ad un altro mondo. Pier Paolo lo sapeva che era un borghese e che era condannato ad essere tale, e pur essendo comunista non poteva che trafficarci eroticamente con il sottoproletariato, questo sottoproletariato che lo ha ucciso un’altra volta, non vendicandolo.

                       Che cos’è la vendetta? La vendetta è uccidere Pino Pelosi. E’ un atto che io, borghese, rifiuto, anzi io, piccolo borghese (voglio infierire su me stesso), con la mia coscienza rifiuto, perché è un sentimento spregevole, ma che nel mondo dell’omertà, nel mondo della malavita è un codice regale, è un codice che deve trionfare.

                        E invece gli amici di Pasolini non lo hanno vendicato. Si sono comportati come Pasolini d’altronde sapeva, perché quella era la diagnosi che faceva negli Scritti Corsari: il sottoproletariato era diventato borghese, piccolo borghese.

                        Piccolo borghese anche in questa rimozione della vendetta che Pasolini vuole, perché Pasolini è una persona che nella sua origine borghese, trascinava tutta la barbarie che ha messo nei suoi films, nelle sue opere del mondo antico, del mondo trapassato, quella che Moravia chiama “età dell’oro” e che fa torto a Pasolini, perché Pasolini non era un reazionario, ma era un rivoluzionario, con tutte le pieghe e i ripiegamenti di chi guarda il mondo della tradizione, che per un poeta è qualcosa di fermo, di lucido, di rivoluzionario.

                     La tradizione non è un fatto reazionario, è un fatto rivoluzionario scoprirla e nutrirsene. Quando lui diceva “sono una forza del passato”, era la più grande provocazione che possa fare un uomo di cultura oggi, perché è il passato che uccide il presente e uccide il futuro.

                    Però, il passato sottoproletariato non ha ucciso il futuro, che poi sarebbe Pino Pelosi. Il processo a Pino Pelosi per questo, dicevo all’inizio, è un fatto simbolico, perché vorrebbe mettere in mano a qualcuno di voi, il coltello della vendetta.

                     Il coltello della vendetta che, poi, si potrebbe trasformare in una simbolica uccisione di Pino Pelosi, fatta da colui che protesta e provoca e non ascolta e si nutre soltanto di parole come  purtroppo facciamo noi in questo momento di passività, di ripiegamento.

 

Io sono convinto che Pasolini, avrebbe fatto vendicare un suo amico se fosse stato ammazzato, nella maniera in cui è stato fatto ammazzare, come lui stesso è stato ammazzato.

 

                     Per cui mi sento colpevole, mi sento vittima di questo mio senso di colpa, mi sento orfano e tutti questi scatti, emozioni psicologiche che dentro di me convivono, non lasciano spazio ad una possibilità di oggettività. E’ un fatto traumatico, l’amore. Diceva Pasolini, “Amare, solo l’amore conta. Solo il conoscere. Non l’aver amato, non l’aver conosciuto”.

                     Io qui, in questo momento, sono consapevole che non mi libererò del fantasma di Pasolini finché non troverò pace, diciamo così, in un amore verso me stesso. Il fatto che però possa amarmi, possa chiarirmi (la chiarezza di cui parlava Laura Di Nola), viene offuscata dalla possibilità che Pino Pelosi sia fatto uscire, magari fra qualche giorno, solo per il fatto che ha ucciso un grande poeta, un grande artista come Pasolini e solo perché è questo che la società italiana voleva.

                    La società italiana è una comunità di false interpretazioni sociologiche, repressa e fascista nel profondo, e non produce che mostri, nonostante tutti quelli che l’abbelliscono, la impreziosiscono con orpelli modernistici. Per cui i Pino Pelosi devono essere assolti, per carità, per confermare questo tipo di società che non prevede altro che orrore e menzogna.

                     E’ un paese di menzogne, di perfidie, di mostruosità, mai portare sul piano della ragione. Ci si commuove per Cristina Mazzotti.       Intendiamoci, sono anch’io commosso e ricordo che Pasolini era commosso pure lui per le sorti di quella ragazza, ma io credo che le vite non valgano tutte alla stessa maniera. In questo io sono un aristocratico e non sono per niente egualitario. I discorsi di coloro che dicono che                Pasolini valeva quanto una Cristina Mazzotti, quanto una checca qualsiasi ammazzata sotto un ponte, sono discorsi di fascisti, di gente orrenda, perché non è assolutamente vero.

                     La vita di un poeta è la vita di chi arricchisce la collettività. Siccome s’è perso, però il senso di che cos’è un poeta e che cos’è la poesia, allora è vero che la vita di un poeta vale molto di meno di una qualsiasi checca morta sotto un ponte. Perché di questo Pasolini è contento: valere molto meno di una checca, allora sì, ma non valere quanto una checca.

                      E non perché la poesia, la conosce, la sa soltanto chi capisce che cos’è veramente. Io non lo so spiegare. D’altronde non c’è riuscito nessuno a spiegare cosa sia la poesia. Son cose che o si sentono o non si sentono.

Il marchio sui documenti dai gay in Baviera è una discriminazione che richiama sinistri esempi del passato.

Ma non la sola: paese che vai, intolleranza che trovi.

 

 

 

 

 

 

RISPETTO PER L’OMO

 

 

di Enzo Biagi

 

 

 

 

               Ognuno aveva un numero e un colore. Rosso, voleva dire oppositore. C’erano i neri, renitenti al lavoro e i verdi, criminali di professione, e i numeri rosa, per i “diversi”, e i gialli per gli ebrei. Sul loro documenti c’era anche una sigla “j” che sta per “jude”. Chi comandava in Germania era un tale Adolf Hitler.

              Adesso è diventato un caso di comportamento di certi poliziotti di Monaco, che sul passaporto di alcuni stranieri hanno aggiunto una annotazione: forse una “h”, che potrebbe voler dire omosessuale, ma anche prostituto, uno che esercita nel mondo degli invertiti. E’ una classifica basata sulle preferenze amatorie alla quale non siamo disponibili, e che riporta alla memoria tempi infelici.

              E’ una forma di discriminazione inaccettabile, che riconduce a manifestazioni odiose di intolleranza o addirittura di razzismo. Per i “tutori dell’ordine”, bavaresi, che arrivano fino a ispezionare i giochi delle mutande, rischierebbero di essere segnalati anche Michelangelo e Leonardo, figuriamoci quell’esibizionista di Oscar Wilde e l’irrefrenabile André Gide, che cadde in tentazione perfino durante il viaggio di nozze. E addirittura il “classico” Thomas Mann, così tormentato da incertezze, potrebbe avere, oltre alla nutrita e ammirata bibliografia, anche una scheda nel casellario giudiziario.

               E’ vero che la cattolica Baviera è il più conservatore del Lander, la figura più eminente che ha espresso nel dopoguerra è stato Franz Josef Strauss, leader dei cristiano-sociali, definito con ironia dagli avversari “il Churcill delle Alpi”, uno che voleva promuovere il riarmo psicologico dei tedeschi, il tipico “uomo forte”.

Aveva idee precise e otteneva larghi consensi. “La politica” affermava uno dei suoi motti “è saper dominare”.

Non aveva molti riguardi per i problemi psicologici e morali, diceva, per esempio: “Io non sono un vigliacco perché non sono un obiettore di coscienza”. Erano frequenti i suoi appelli “alla reazione sana della gioventù”.

               Anche il nazismo si propose di far pulizia, di “liberare la vita pubblica dal profumo soffocante dell’erotismo moderno”. Cinema e teatri, letteratura e manifesti dovevano ispirarsi alla nuova etica: venne subito ordinata la chiusura dei locali frequentati dai pederasti, calcolarono che fossero più di un milione, e degli alberghi a ore, e fu proibita la vendita, coi distributori automatici dei preservativi.

Tutto questo rigore non impedì all’ex studenti Horst Wessel, bardo delle camicie brune e autore dell’inno In alto la bandiera, di fine accoppiato dalla rivoltellata di una puttana. Ernst Rohm, comandante delle squadre di assalto, si intratteneva con giovanottoni nei bagni turchi e nel Kleist Casino di Berlino, rifugio di gentiluomini dai gusti insoliti, e anche quando Hitler gli sparò addosso era in compagnia di un’allegra, gonfia e sudaticcia brigata.

                Il fatale riferimento al Terzo Reich, in queste circostanze, è ovvio e ricorrente, come per ogni manifestazione del naziskin, gli imbecilli violenti che ostentano incredibili capigliature, inattuali svastiche e aggressive testimonianze di nostalgici costumi.

               Il marchio “omo” usato abusivamente non è solo una discriminante tra gli etero e gli altri, ma anche una forma di xenofobia: colpiva soprattutto i gay arrivati da fuori. Non è insomma un ritorno al passato, ma rivela preoccupazioni che nascono dal presente. Le ondate di immigrati, provenienti in gran parte dall’Est, creano seri problemi anche nella Bundesrepublik.

               Non credo che sia in arrivo un’altra Gestapo, ma capisco che quella stampigliatura crea allarme, prima di tutto tra chi già una volta ha sofferto di dolore provocato da queste iniziative che offendono la dignità umana.

Qualcuno teme che la Baviera sia solo un prologo: da quella parti circola ancora una barzelletta. “Hanno arrestato tutti i ciclisti e tutti gli ebrei” dice uno. E l’altro: “Perché i ciclisti?”

                  Paese che vai, intolleranza che trovi, e se in Israele stanno pensando di aprire una spiaggia “tutta per loro”, con turni bisettimanali di ingresso libero anche per le lesbiche, nello Zimbabwe lanciano una campagna contro tutta la compagnia, paragonata ai “ladri e gli assassini”.

 

                  Da noi, prende la parola il presidente dell’Arcigay e denuncia i soprusi di cui sono vittime gli aderenti alla associazione: 40 mila, in rappresentanza anche dei 3 milioni di italiani con identiche propensioni. Afferma che nei loro ritrovi non c’è n’è droga né trasgressione perché loro aspirano alla “normalità”: se si avverte una ossessione è quella del sesso.

 

                   Ma c’è chi negli impieghi “distingue”: puoi anche essere bravissimo, ma “se frequenti certi ambienti” ti lasciano a spasso.

E c’è chi annota le targhe davanti a certi luoghi di incontro per potere poi identificare i frequentatori. Il pregiudizio è sempre faticoso cacciarlo.

                  Franco Grillini è contento perché l’omosessualità non è più considerata dalla Organizzazione mondiale che si occupa della salute una malattia mentale, ma una variante del comportamento umano. Che va rispettata, mi pare ovvio, ma diventa fastidiosa quando viene esibita. Come la virilità ostentata, del resto.

                 Non vedo che ragioni ci siano per essere orgogliosi dell’attività erotica, per metterla in mostra addirittura sulle strade, o piazzando uomini e donne nudi come “provocazioni”: ma di chi?, in una sfilata di moda. Che non è l’arte di svestirsi.

 

PANORAMA

31.08.1995

venerdì 2 dicembre 2016


DORIANO GALLI, PIONIERE DELLE UNIONI CIVILI OMOSESSUALI

                                      di Franco Di Matteo

 

 

Che un diritto rimanga sulla carta è inconcepibile; eppure la compagine politica di centro-sinistra a cui appartiene l’onorevole Grillini, ha il vizietto di estorcere la fiducia agli elettori promettendo diritti che poi rimangono pura astrazione ma danno a chi li promulga la possibilità di farsi belli.

Al riguardo, Roma detiene la palma della malafede; la legge 328 sulle politiche sociale del gennaio 2000, emanata come coronamento del governo d’Alema, e detta “legge Turco” dalla allora ministra della Solidarietà Sociale Livia Turco che la emanò nel 2000, è finita nelle sgrinfie dell’assessora del partito della Margherita Raffaella Milano, che ovviamente si guarda bene dall’applicarla, optando per dei pietistici surrogati, vedi il cosiddetto “privato sociale” carrozzone clientelare di ambito cattolico, che consentono al politico di sinistra di turno, in questo caso Walter Veltroni, di accaparrarsi la poltrona, in barba al suo originale elettore, abbindolato con la promessa di garanzie di diritto, che poi, una volta ottenuto il voto, viene sistematicamente escluso, tanto di “fasce deboli”, alle quali estorcere in futuro un voto con il miraggio del diritto, se ne troveranno sempre. Ed è questa la vergognosa ‘cultura’ che muove le scelte dell’onorevole Franco Grillini, il quale, continua a promettere ai suoi elettori diritti che rimangono sulla carta.

La riprova la si è avuta qualche settimana fa, quando il Messaggero ha pubblicato l’annuncio che Doriano Galli, il 30 giugno, avrebbe richiesto al Tribunale civile di Roma un atto notarile di convivenza, avvalendosi di una legge in vigore dal 1937, di cui ha usufruito già nel lontano 1981. La cosa non è andata giù all’onorevole Grillini, che in un comunicato ha definito, tramite un legale, l’iniziativa di Doriano Galli ‘una bufala’.

Il giorno trenta, l’atto non è stato ratificato per l’opposizione della cancelliera Dionette, che ha asserito che la convivenza ‘more uxorio’ tra persone dello stesso sesso, lei non poteva accettarla.

Il primo luglio il Corriere della Sera pubblica l’articolo nel quale il reato di omissione d’atti d’ufficio della Dionette, veniva avallato dall’esponente di Alleanza Nazionale che ha grottescamente confuso delle presunte ‘nozze gay’ con un semplice atto notorio. Questi due personaggi, non volendo, hanno avvalorato la congruenza legale dell’atto di Doriano Galli, che perciò risulta tutt’altro che una bufala.

Sarebbe stato auspicabile, che almeno in questo frangente l’onorevole Grillini avesse espresso solidarietà a Doriano Galli, invece niente, grandi esaltazioni per Zapatero, ma in Italia, la legge che dovrebbe vedere la luce tramite il prossimo cartello elettorale Prodi-Fassino, deve avere un determinato marchio, e non ci si fa sfiorare dall’idea che la politica delle promesse e delle infingardaggini è finita.

I diritti, tra l’altro, al di là della legge del \1937, esistono di già, e sono quelli della Costituzione, ma qui si vuole ancora una volta ricreare il solluchero della promessa, altrimenti, i D.S., a cosa stanno a fare?

Luglio 2005